Veritas Filia Temporis. Veritas Filia Temporis

dipinto 1531-1534

Nel dipinto sono raffigurati tre personaggi che si librano nell'aria: a destra una figura femminile, aptera, parzialmente coperta da un velo, identificata con la Verità, viene sorretta da un vecchio alato recante in mano una clessidra, attributo di Crono-Saturno, divinità del Tempo e padre della Verità, mentre un giovane alato le afferra la caviglia, stringendo nell'altra mano il caduceo

  • OGGETTO dipinto
  • MATERIA E TECNICA tela/ pittura a olio
  • ATTRIBUZIONI Caroto Giovanni Francesco (1480 Ca./ 1555)
  • LOCALIZZAZIONE Museo di Castelvecchio
  • NOTIZIE STORICO CRITICHE Il dipinto è stato reso noto da Hans-Joachim Eberhardt nel 2008, quando ancora apparteneva alla collezione del conte Pietro Arvedi d'Emilei. Nel 2019 è stato donato da Ferruccio Arvedi ai Musei Civici veronesi e, prima dell'esposizione al Museo di Castelvecchio, è stato sottoposto ad un intervento di restauro a cura di Anna Lucchini. L'unico indizio per tentare di ricostruire la sua storia precedente, una comunicazione del vecchio proprietario che ricordava una provenienza da Casa Gazzola, ha permesso di riconoscerlo ne «Il Tempo Diana e Mercurio soffitto in tela - di Domenico Brusasorzi» segnalato nella galleria della famiglia Gazzola da Saverio dalla Rosa all'inizio dell'Ottocento (Guzzo 1998, p. 166). Più a ritroso nel tempo non è possibile spingersi. Spetta pertanto allo studioso tedesco averne individuato la collocazione originaria attraverso la lettura attenta di alcuni indizi. In primo luogo il formato ottagonale della tela e la visione dal basso delle figure, tipica di un dipinto da soffitto. Inoltre, il rapporto stilistico con altri tre dipinti di Caroto, la "Tentazione di Cristo" (n. inv. 1362-1B112), il "San Michele arcangelo precipita Lucifero" (n. inv. 1363-1B154) del Museo di Castelvecchio e il "San Michele arcangelo" dello Szépmuvészeti Múzeum di Budapest, proveniente quest'ultimo da un Palazzo Persico di Verona identificabile con Palazzo Da Persico Portalupi in contrada Sant'Egidio, che nel Cinquecento appartenne alla famiglia Della Torre. È stato quindi possibile ipotizzare che la tela decorasse la volta dello studiolo di Giulio Della Torre, un ambiente documentato almeno dal 1520 e descritto nel 1571 come «studio octagono», anche in considerazione della documentata amicizia che legava il gentiluomo veronese a entrambi i fratelli Caroto e in particolare a Giovan Francesco, che aveva lasciato affreschi nel palazzo già nel 1524. La tela raffigura la Verità che si libra nuda nell'aria sostenuta da un vecchio alato, suo padre, il Tempo, come rivela il tradizionale attributo della clessidra che egli tiene nella mano destra. Meno scontata è l'interpretazione della terza figura, un giovane, anch'egli alato, che afferra la Verità per una caviglia tentando di trascinarla verso il basso. Per la presenza del caduceo, Dalla Rosa l'aveva descritta come Mercurio. Giustamente Eberhardt ne sottolinea invece le caratteristiche negative (l'orecchio storpiato, i serpentelli eccitati e aggressivi del caduceo, la somiglianza con la figura di Satana nella "Tentazione di Cristo") e propone di interpretarlo come l'allegoria del Dolo, o Inganno. Lo studioso identifica anche la probabile fonte iconografica alla base della rappresentazione, una favola attribuita a Fedro facente parte di una raccolta curata dall'umanista Nicolò Perotti nel 1465-1470 (Eberhardt 2008, p. 334). Il soggetto rientra in un programma, dettato certamente dallo stesso Giulio Della Torre, volto a drammatizzare la lotta tra il bene e il male ricorrendo a figure sia della mitologia classica sia della religione cristiana, in una sintesi disinvolta di motivi pagani e cristiani che era comune, oltre che al gentiluomo veronese (si veda Marchi 1980, pp. 9-10), a buona parte della cultura umanistica del tempo. La datazione della "Veritas filia Temporis" e delle altre tele dello studiolo dovrebbe cadere all'inizio degli anni trenta, quasi un decennio dopo la decorazione del camino del salone del palazzo. Gli estremi cronologici tra i quali si può approssimativamente collocare sono il 1531 della "Sacra famiglia" del Museo di Castelvecchio (n. inv. 1371-1B114), la prima testimonianza dell'avvenuto contatto da parte di Caroto con la cultura figurativa della maniera moderna, e il 1534 degli affreschi di Francesco Torbido nell'abside del duomo, condotti su cartoni di Giulio Romano, che di questo linguaggio nuovo e potente costituiscono il clamoroso esordio ufficiale in città. Un noto aneddoto di Vasari racconta che il vescovo Giberti aveva affidato l'incarico a Caroto, il quale aveva rifiutato per «la grande opinione di sé, onde non arebbe messo in opera per cosa del mondo cosa ritratta da altri». Leggendo tra le righe si capisce che il pittore, orgoglioso, intelligente e curioso di ogni novità, voleva ribadire in questo modo la sua primogenitura nella comprensione e nella padronanza dello stile romano, senza bisogno di servirsi dei disegni altrui. (da Gianni Peretti 2020)
  • TIPOLOGIA SCHEDA Opere/oggetti d'arte
  • CONDIZIONE GIURIDICA proprietà Ente pubblico territoriale
  • CODICE DI CATALOGO NAZIONALE 0500717685
  • NUMERO D'INVENTARIO 50974
  • ENTE COMPETENTE PER LA TUTELA Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza
  • ENTE SCHEDATORE Comune di Verona
  • LICENZA METADATI CC-BY 4.0

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