Sofonisba. Sofonisba

dipinto ca 1520 - ca 1525

Il dipinto raffigura una donna seduta di trequarti a sinistra con le gambe accavallate e il seno sinistro scoperto. Nella mano destra, regge una coppa

  • OGGETTO dipinto
  • MATERIA E TECNICA tela/ pittura a olio
  • ATTRIBUZIONI Caroto Giovanni Francesco (1480 Ca./ 1555)
  • LOCALIZZAZIONE Museo di Castelvecchio
  • NOTIZIE STORICO CRITICHE Il dipinto fu acquistato nel 1882 presso il mercante Luigi Montini e, a questa transazione, si arresta purtroppo ogni tentativo di ricostruirne la storia precedente che si perde probabilmente nelle vicende di costruzioni e smembramenti ottocenteschi delle collezioni private di antiche famiglie veronesi. La figura femminile è stata talvolta interpretata come una Ebe, la coppiera degli dei, o come una Cleopatra, ma più comunemente vi si riconosce Sofonisba, figlia del generale cartaginese Asdrubale e moglie di Siface, re di Numidia, la quale, secondo la testimonianza di Tito Livio (XXX, 15), preferì darsi la morte con una bevanda avvelenata piuttosto che cadere prigioniera di Scipione durante la seconda guerra punica. Tuttavia, l’immagine manca di qualsiasi elemento aneddotico o letterario che permetta una sicura identificazione, cosicché non sarebbe arbitrario neppure vedervi una raffigurazione di Artemisia che si appresta a bere le ceneri del marito Mausolo per fare di sé stessa, come narra Valerio Massimo (IV, 6), una tomba vivente. Berenson e Fiocco hanno mostrato che il dipinto deriva da un prototipo lombardo, la “Sofonisba” di Giampietrino della collezione Borromeo all’Isola Bella (Berenson 1907, p. 190; Fiocco 1913, p. 130; ibi 1915, p. 15). Gianni Peretti (2010, p. 399) sottolineava la fedeltà nella ripresa del soggetto da parte di Caroto, anche nei dettagli marginali come la corona trapunta di piccole perle o le pieghe del panneggio, tanto da suggerire l’ipotesi che il pittore veronese avesse avuto libero accesso al materiale grafico del collega, riutilizzando forse lo stesso cartone preparatorio. Rispetto al prototipo, Caroto rivestì pudicamente la figura, che nell’originale è nuda, e modificò anche la forma del subsellium su cui essa posa. Inoltre, nel dipinto di Giampietrino, le dita della mano sinistra stringono, ripiegate, un lembo del drappo rosso, mentre in Caroto stanno per abbandonarlo aprendosi in un languido gesto. Ma le fotografie precedenti al restauro di Giovanni Pedrocco (Alinari 43647, Anderson 12449) mostrano le dita tutte raccolte, tranne l’indice. Le radiografie eseguite nel 1992 rivelano un disegno originale simile al modello e un successivo pentimento che ha portato ad aprire la mano, ma non è affatto chiaro se questo cambiamento sia dovuto allo stesso Caroto o ad un intervento più tardo. In ogni caso, bisogna ammettere una ulteriore correzione di cui resta un'attestazione nelle foto. La tela veronese risulta una testimonianza importante della capacità di Caroto nel copiare e rielaborare i modelli dei colleghi, come comprova anche un altro episodio simile, ovvero la rappresentazione del “Suicidio di Lucrezia” già al Kaiser Friedrich Museum di Berlino (distrutta nel 1945) che deriva da un originale del Bramantino oggi perduto (datato 1510 circa) ma di grande fortuna e ampiamente copiato durante tutto il Cinquecento (Agosti, Stoppa 2012, p. 83). Per quanto riguarda la cronologia dell'opera di Castelvecchio, un riferimento imprescindibile è stabilito dalla datazione della “Sofonisba” Borromeo che, come anticipato, rappresenta il prototipo da cui Caroto trasse la sua eroina. Essa doveva provenire, insieme ad un’omologa “Didone”, dall’eredità di Bartolomeo Arese (1610-1674), come indicato da iscrizioni seicentesche sul retro della tavola (Geddo 2006). I due dipinti facevano parte di un ciclo, smembrato verosimilmente alla metà del XVII secolo, completato da una “Cleopatra” e da una “Lucrezia” (già Kress Collection, New York, provenienti dalla collezione Guidi di Lucca; Buganza 2011, p. 142). Seppur non si riesca a risalire con sicurezza all’originario committente del ciclo delle “Eroine suicide”, è forse possibile pensare alla decorazione per uno studiolo di una nobildonna lombarda, legata alla corte di Francesco I di Valois, duca di Milano dal 1515 al 1521. Come confermato da Edoardo Rossetti (2020, pp. 68-70), una realizzazione del ciclo milanese attorno al 1520 si inserirebbe perfettamente nella carriera di Giovan Francesco Caroto e nei suoi spostamenti tra Milano e Casale da collocare negli anni della reggenza di Anna d’Alençon dal 1518 ed entro il definitivo ritorno a Verona nel 1523, segnando un ennesimo importante aggiornamento del pittore veronese sui fatti artistici milanesi. (da Gianni Peretti 2010, p. 399)
  • TIPOLOGIA SCHEDA Opere/oggetti d'arte
  • CONDIZIONE GIURIDICA proprietà Ente pubblico territoriale
  • CODICE DI CATALOGO NAZIONALE 0500717791
  • NUMERO D'INVENTARIO 1260
  • ENTE COMPETENTE PER LA TUTELA Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza
  • ENTE SCHEDATORE Comune di Verona
  • LICENZA METADATI CC-BY 4.0

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